La follia nelle elezioni americane

Tonino D’Orazio 10 marzo 2016.
Per la prima volta sono stupito dalle folli dichiarazioni dei due maggiori candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Dalla virulenza xenofoba e guerrafondaia, in modo prevalente, del repubblicano miliardario Trump. E dallo sguardo allucinato e sorriso largo della Clinton che sembra non avere un cognome proprio.
Due candidati che non hanno nulla a che vedere con il popolo né tantomeno con i semplici cittadini. Dalla terminologia usata si può intravvedere una vera paura da parte dell’etnia bianca, vista la manipolazione e l’utilizzo elettorale del colore della pelle degli individui e una strategia di odio e di xenofobia impressionante. Che non fosse più l’immagine del sogno americano e della democrazia, veicolata e potenziata culturalmente, ma falsamente, nel mondo intero per decenni, molti se ne sono accordi da tempo. Oggi tra guerre coloniali, sopraffazione di popoli e di religioni, anche amici spiati come noi, l’immagine si è persa per sempre. Esistono solo loro e basta.
Abbiamo di fronte una Clinton, viso teso, che gioca alla mamma gentile e un cattivo cowboy, Trump, con la pistola puntata contro tutti, e un filo di follia nelle smorfie facciali. Una vera scena hollywoodiana, manca il governatore Schwarzenegger. Insomma una stupidità disarmante.
Per la Clinton, guerrafondaia ebbra (viso raggiante indimenticabile) dell’assassinio di Ghedaffi in Libia, oltre allo slogan “E’ l’ora di una donna”, è quasi altrettanto ricca del miliardario Trump. E’ sostenuta da Barclays, Barclays Capitol, Goldman Sachs, de Citi, de Citigroup, dall’UBS, da Bank of California, da Bank of America (famiglia Rothchild e probabilmente la maggioranza della potente lobby ebraica), e bisogna aggiungere anche la fondazione, addirittura, Victor Pinchuk di Kiev. Un fiume di soldi oltre alla propria Fondazione Clinton, già milionaria. Dietro, a sostegno ulteriore ci sono l’industria degli armamenti, Wall Street e la famosa diramazione con caratteristica mondiale chiamata la Trilaterale, nella quale sono presenti non pochi politici nostrani di rilievo. Il disagio sta nel simbolo, l’asinello.
Trump è il cattivo nazionalista yankee, ricco già di eredità, uomo di affari nell’immobiliare già del padre, politico, personaggio televisivo (Fox News) famoso da 15 anni (alla Bruno Vespa). Prima un periodo democratico, poi repubblicano. I voltagabbana esistono dappertutto, sono il sale delle nostre democrazie. Sostiene apertamente il Ku Klux Klan e rilancia la supremazia della razza bianca, soprattutto anglosassone. Uomo scandalo, da gossip, travolge tutto e tutti sul suo passaggio. Il simbolo è l’elefante. Razzista dichiarato minaccia soprattutto i messicani (“stupratori e criminali”), i neri, i musulmani, le minoranze e anche le donne. (Però spera anche nel loro voto. Conosce l’anomalia masochista che a volte pervade il popolo quando sbaglia obiettivo). Propone per gli Stati Uniti un ritorno a maggiore potenza mondiale (“Rendere l’America ancora grande”, in realtà lapsus di una evidente difficoltà odierna), minaccia soprattutto la Russia (per i cinesi ci va cauto ma è pronto a barricate doganali mondiali), e in Europa di dare maggiore forza alla Nato. Dichiara di voler bombardare la “merda Isis”, cioè se stesso. Stimola un odio maggiore tra bianchi e neri, rilancia il conflitto razziale, e quello religioso verso l’islam, tutti elementi che tra l’altro, per travaso, stanno trovando spazio anche in Europa.
Due candidati che viaggiano con il 40% della popolazione americana iscritta nelle liste elettorali e poi, in realtà, con una percentuale inferiore, a volte di molto, di quelli che effettivamente votano.
Ma che succede nel ventre molle del popolo statunitense per avere di fronte questi due candidati ?
Intanto l’innovazione sta proprio nell’ascesa di Bernie Sanders, il candidato “socialdemocratico” del partito democratico. Sconfitto, ovviamente, il sistema pre-elettorale non permette altro, ma questa volta con grande onore e consenso. Soprattutto dei giovani, su tre concetti: sanità per tutti, abolizione delle tasse universitarie (si può spendere anche 100.000 dollari per un corso di diploma-laurea, per cui si è indebitati, spesso con le banche, prima ancora di poter guadagnare), servizi social allargati con ridistribuzione della ricchezza (tassando i super ricchi e ridimensionando il potere bancario). Esiste forse un frutto maturo del “Occupy Wall Street”? Oppure il numero dei poveri aumenta fortemente tra la classe media?
Allora questa scelta di migliaia di giovani, di lavoratori, di strati sociali deboli, indica che devono attraversare un vero momento di grande difficoltà. Se è vero che in genere una massa monetaria non varia molto, per osmosi, se va verso l’alto diminuisce sicuramente in basso. Al super arricchimento di taluni risulta l’impoverimento di molti. Il neoliberismo feroce deve aver colpito, nella sua ingiustizia, anche molti americani per rivolgersi ad un socialista, parola quasi proibita in quel paese, visto che corrisponde quasi a comunista, cioè terrorista del capitalismo.
Ha sicuramente ragione l’acuto Noam Chomsky che nell’analizzare la situazione indica nell’etnia bianca soprattutto un senso di grave assenza di speranza e una allarmante percentuale di mortalità negli individui meno acculturati. Trova che nel voto a Trump si mischiano sentimenti profondi di collera, di paura nell’avvenire, di frustrazione se non di disperazione. Dice che in realtà, con tutti i mezzi eccezionali e tecnologici che hanno per la sanità, l’aspettativa di vita di un americano bianco (non ricco) è di gran lunga inferiore a tanti altri paesi. Mentre altri gruppi etnici vivono più a lungo. Non si muore più tradizionalmente di infarto o di diabete, ma in una epidemia di suicidi, di malattie del fegato dovute all’abuso di alcool, di overdose di eroina e di oppiacei ottenuti anche con ricette. Tra l’altro la povertà attuale la si può paragonare a quella della grande depressione del ’29, e degli anni ’30, negli effetti devastanti. Ma oggi senza vera luce nel tunnel né proposte alternative.
Trump, infatti, promette di ripristinare: un mondo in cui i bianchi siano al centro di tutte le cose negli Stati Uniti (nella misura in cui già non lo sono), e la loro posizione dominante, affinché i loro privilegi e poteri siano incontrastati. Tanto è vero che il sociologo Seymour Lipset parla di “autoritarismo della classe operaia bianca” in una situazione precisa di “teoria del terrore” che Trump sta gestendo alla grande. Questa gestione del terrore suggerisce che i conservatori sono autoritari e particolarmente inclini ad amare “la bandiera, le pistole, Dio e la religione”.
Un sondaggio nel South Carolina di elettori alle primarie sul probabile candidato repubblicano, condotto dal Public Policy Polling e rilasciato il 16 febbraio scorso, ha rivelato che il 10 % crede che i bianchi siano una razza superiore; il 20 % crede che i gay e le lesbiche non dovrebbe essere consentito vivere nello Stato; Il 60% crede che i musulmani debbano essere banditi dal paese; e il 29% pensa che gli schiavisti del Sud abbiano vinto la guerra civile americana.
L’ascesa del miliardario Trump sta però creando grandi perplessità nel popolo americano in generale e nel partito repubblicano in particolare. Eliminare la pericolosa “Trumpmania” diventa di loro responsabilità. Ma, in realtà, non hanno chiaramente il coraggio e i mezzi per farlo. I conglomerati finanziari sono preoccupati dalla demagogia radicale del loro rappresentante, anche se “vincente”, ma impresentabile al mondo. Gli affari, soprattutto peggiori, si fanno nelle segrete stanze delle lobby, non in piazza, e non strombazzando. In periodi di crisi l’uomo forte e autoritario viene sollecitato dal populismo e tutti sono propensi a credere, e ve ne sono le premesse, che sia giunta anche l’ora degli Stati Uniti. Per ripristinare un impero in sfacelo ci vuole un condottiere, con il culto della personalità. Alla direzione repubblicana si rendono conto che l’ascesa dell’uomo veramente solo al comando potrebbe avere implicazioni minacciose per il loro sistema democratico, dove sono ristrette lobby e oligarchie a comandare, non il presidente, e poco il Congresso, se non tra mediazioni varie e di spartizione. Solo così si spiega che alle elezioni del middle term, se il presidente è repubblicano molto spesso il Congresso è a maggioranza democratica e viceversa.
A noi non resta che stare a guardare, senza grande tifo e illusioni, perché tra i due candidati il punto in comune che nessuno può toccare sono gli interessi vitali degli statunitensi contro tutti, ma sperando che questa nuova zuppa autoritaria non travasi culturalmente anche in Europa. Però noi, in genere, ormai siamo segugi dell’ideologia socio-economica transatlantica e facciamo parte integrante di questo patto.

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